di Alessandra Schofield
Qualcosa non torna. Gli anni della scuola, a cui tanti di noi adulti guardano con nostalgia e che ricordano come l’età d’oro, per i nostri figli si stanno rivelando molto più pesanti di quanto immaginassimo.
Si stanno moltiplicando inchieste, ricerche e sondaggi che cercano di individuare e mettere in luce un disagio che sembra essere sempre più forte. L’ultimo, in ordine di tempo, il questionario realizzato dal Collettivo Manzoni Antagonista, attivo tra gli studenti dello storico Liceo Linguistico di Milano.
Emerge un quadro preoccupante, e anche un po’ triste, dipinto da ragazze e ragazzi che si impegnano molto, ma non si sentono valorizzati dai professori (51%) o comunque non sanno esprimersi in merito (oltre il 20%). Buona parte delle studentesse e degli studenti (il 44%) si sente stimolata dal proprio percorso di studi, ma oltre la metà non lo è (più del 37%) o non ne è certa (quasi il 18%).
Non più adolescenti e non ancora adulti, i liceali percepiscono in stragrande maggioranza la scuola come elemento che ne influenza la salute mentale, che sia molto (oltre il 50%) o abbastanza (37,6%). E, cosa molto grave, si sentono sempre (28,5%), spesso (oltre il 37%) o qualche volta (28%) classificati esclusivamente in base al rendimento e forzati a raggiungere l’eccellenza. Ragazze e ragazzi infelici e sotto stress, che a causa della scuola piangono o hanno dei crolli emotivi sempre (oltre il 16%), spesso (oltre il 34%) o qualche volta (quasi il 36%).
Stiamo sbagliando qualcosa, questo è chiaro, ed è importante e urgente capire tutti insieme – docenti, presidi e genitori – dove sia l’errore. Forse il primo passo è ricordare.
Tornando indietro con la memoria a quello stesso tempo che fu nostro, siamo poi così sicuri che per tutti noi sia stato davvero così lieve quel periodo? Non è che magari, semplicemente, abbiamo superato, elaborato e ridimensionato le tensioni, i timori e gli insuccessi (ma anche i successi), conservando ciò che ci è servito a crescere e gettando via il resto? Eravamo poi così diversi dai nostri figli? Davvero abbiamo dimenticato come a quell’età tutto sia eroico o disperante, magnifico o tremendo, tragico o esaltante, terribile o meraviglioso, infinitamente cosciente o infinitamente incosciente? Sul serio abbiamo scordato che dagli 11 anni in poi e per molti anni ancora ogni cosa – nel bene e nel male – sembra per sempre?
Minimizzare sarebbe una grave svista. Forse la strada può essere, da parte della scuola (in senso generale, sia chiaro), porsi l’obiettivo non di tarare le classi sulle eccellenze – che pure ci sono, e vanno riconosciute – ma cercar di portare tutti avanti nel percorso senza lasciare nessuno indietro e senza incoraggiare una competizione eccessiva e disaggregante. Forse noi, come genitori, possiamo sostenerli nello sforzo, apprezzandone l’impegno e i bei risultati quando ci sono, ma aiutandoli a capire che ci può essere un intoppo, che si può cambiare idea sul percorso, che un voto non li definisce, che un numero non rappresenta la loro qualità, che quanto ottenuto a scuola non dice nulla delle persone che saranno né degli obiettivi che raggiungeranno nella vita. Forse così possiamo tutti fare in modo che un giorno, guardando indietro, possano ricordare questi anni con nostalgia.