di Alessandra Schofield
Alzheimer, la solitudine dei caregiver nell’indagine Censis-AIMA. L’Alzheimer è una malattia che non conosce confini di alcun genere, e colpisce profondamente non solo chi ne è affetto, ma anche la sua famiglia. In Italia si stima che ci siano circa 1,2 milioni di persone affette da Alzheimer o altre forme di demenza, spesso assistite dai familiari; parliamo quindi di un numero di persone coinvolte, direttamente o indirettamente, molto alto: circa 3 milioni.
Cifre che possono variare leggermente a seconda delle fonti e dell’aggiornamento dei dati, ma molto significative e che riflettono il vasto impatto sociale e familiare dell’Alzheimer nel nostro Paese.
A 25 anni dalla prima ricerca condotta da Censis e AIMA, emerge un quadro di solitudine crescente, che grava soprattutto sui caregiver, spesso lasciati soli a fronteggiare il pesante carico dell’assistenza, con una ricaduta devastante sulla loro vita quotidiana e sulle relazioni familiari.
Poiché la pandemia di Covid-19 ha colpito duramente i pazienti più anziani e vulnerabili, si osserva oggi un profilo dei pazienti mediamente più giovane; persone ancora attive nel mondo del lavoro che tuttavia hanno dovuto interrompere o ridimensionare la propria carriera a causa della malattia, con effetti profondi sia a livello economico che psicologico.
La malattia, come in passato, colpisce prevalentemente le donne: il 62,2% dei pazienti è di sesso femminile, e anche il 70% dei caregiver è composto da donne, che ogni giorno affrontano questa sfida senza tregua.
Nonostante l’importanza dell’assistenza domiciliare fornita dalle badanti, il loro ruolo si è ridotto rispetto al passato, con un aumento invece delle badanti non conviventi: una soluzione più costosa e meno strutturata. Il 41,1% delle famiglie fa ancora ricorso a questa forma di aiuto, ma il costo è diventato insostenibile per molte: rappresenta infatti il 75% dei costi diretti a carico dei nuclei familiari, con una spesa media di 72.000 euro all’anno per paziente (aumentata del 15% rispetto al 2015). E intanto, la qualità dell’assistenza pubblica non sembra migliorare. Solo il 36,2% dei caregiver esprime un giudizio positivo sulla situazione attuale, mentre il 29,8% ritiene che le condizioni siano peggiorate dopo la pandemia.
Nonostante i progressi nella diagnosi e nelle terapie, il percorso assistenziale resta ancora dunque largamente insufficiente. Molti pazienti non riescono a ricevere una diagnosi tempestiva: il tempo medio per una diagnosi di Alzheimer si attesta ancora sui due anni, un ritardo che può avere conseguenze gravi. Inoltre, più della metà dei malati non ha mai avuto accesso a un centro specializzato per i disturbi cognitivi e le demenze (CDCD). Questi centri, pensati per rispondere all’aumento di queste patologie, sono tuttora pochi e distribuiti in modo disomogeneo. Nel Nord Italia il 48,2% dei pazienti è seguito da un CDCD, ma questa percentuale scende drasticamente al Sud, dove solo un terzo circa dei pazienti riesce a usufruire di questi servizi.
La pandemia ha peggiorato ulteriormente una situazione già critica, facendo emergere quanto i caregiver si sentano abbandonati dalle istituzioni. Uno su cinque riferisce di non ricevere alcun tipo di aiuto, né dalla famiglia né dai servizi pubblici. L’isolamento che molte famiglie hanno sperimentato durante il lockdown ha peggiorato le condizioni dei pazienti, aumentando le difficoltà nella gestione quotidiana della malattia. Il 68,3% dei caregiver dichiara di sentirsi solo, mentre il 42,3% ritiene che negli ultimi anni non ci siano stati miglioramenti significativi nell’assistenza offerta. Questo senso di abbandono si riflette anche nelle tensioni familiari, che spesso emergono all’interno delle famiglie, dove l’equilibrio viene costantemente messo alla prova dalle crescenti responsabilità assistenziali.
Una novità emerge da questa ricerca: l’indagine sui pazienti con disturbo cognitivo lieve (Mci), condizione che spesso precede l’Alzheimer. Si tratta di pazienti mediamente più giovani, con un’età media di 71 anni, che vivono nella costante paura di un peggioramento. Il 90,1% di loro afferma che la paura domina la propria esistenza, mentre l’88,2% ripone la propria speranza nei nuovi farmaci in fase di sviluppo. Per molti, queste terapie rappresentano l’unica possibilità concreta di affrontare un futuro meno incerto.
Ma nonostante le speranze legate alla ricerca, la realtà quotidiana di questi pazienti resta difficile. Il supporto psicologico offerto dal sistema sanitario nazionale è largamente insufficiente, e molti pazienti con Mci faticano a gestire le difficoltà quotidiane senza un adeguato sostegno. Il 68,5% riferisce di avere problemi nella vita di tutti i giorni, e la maggior parte di loro dipende ancora dalla famiglia per ricevere assistenza. Anche in questo caso, il peso dell’assistenza ricade sulle famiglie, aggravando ulteriormente le dinamiche familiari, già messe a dura prova dalla malattia.